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Vent'anni di Erdogan

di Pinar Selek, sociologa e femminista turca.

 

È successo prima del governo attuale. Ormai più di ventiquattro anni fa sono stata arrestata dalla polizia turca mentre conducevo un’inchiesta sulle mobilitazioni sociali curde. Lo scopo era farmi confessare i nomi dei militanti/e curdi/e che avevo incontrato nel corso dell’inchiesta. In un primo momento i poliziotti si sono dimostrati cortesi. Mi hanno spiegato che dovevo fornirgli i nomi e non pubblicare nulla. Ho rifiutato. Allora la tortura è cominciata. Per giorni e notti ho sperimentato le cose peggiori. Ero tutta rotta, avevo la spina dorsale spezzata. Scosse elettriche al cervello, ma … continuavo a rifiutarmi di parlare. Alla fine, mi hanno sbattuta in prigione, in condizioni spaventose. Lì ho incontrato altre donne che erano state torturate e violentate. Se avessi saputo che all’epoca c’erano 35 mila prigioniere e prigionieri politici e che la tortura era sistematica, non sarei rimasta sorpresa di passare le mie notti, per due anni e mezzo, in compagnia delle urla delle donne torturate.

Il 22 dicembre 2000 sono stata rilasciata. Questo accadeva prima dell’attuale governo. È stato subito dopo il massacro nelle prigioni. Subito dopo aver visto morire i miei amici/che e aver sentito le loro urla durante gli scontri. Si trattava dell’operazione “Ritorno alla Vita”, che prevedeva il trasferimento forzato in queste nuove prigioni. L’incubo è durato un giorno e due notti, nella prigione dove mi trovavo abbiamo contato trentotto morti e centinaia di feriti. Hanno portato noi sopravvissuti in un carcere provvisorio prima dello smistamento. Tutto quel che avevo scritto in due anni e mezzo era stato bruciato o confiscato. L’essere stata rilasciata non ha messo fine a questa sofferenza. È stato solo l’inizio di un nuovo incubo, mi ritrovo prigioniera di un brutto film che continua ancora oggi costringendomi a vivere in esilio. Nonostante quattro assoluzioni, ho vissuto per 24 anni sotto la minaccia dell’ergastolo.

 

Le radici della repressione e della rivoluzione dal basso

Il mio processo riflette sia la continuità del regime autoritario in Turchia, sia le configurazioni dei dispositivi di repressione. Lo scenario politico della Turchia odierna è il risultato di equazioni socio-politiche troppo complesse per essere affrontate in modo esaustivo. Sin dalla fondazione dello Stato nazionale turco, l’esercito è stato la figura centrale del potere. Questa situazione ha conferito al regime una dimensione autoritaria. La specificità del regime repressivo turco è contenuta nella definizione costituzionale della cittadinanza repubblicana: il monismo prevale in tutti gli ambiti. Chiunque si discosti dalle norme stabilite dai poteri politici viene immediatamente percepito come pericoloso e distruttivo. Nato dal genocidio degli armeni e dai massacri dei curdi e dei greci, lo Stato-nazione turco è stato fin dall’inizio un sistema politico nazionalista e militarista, che ha consolidato la propria legittimità attraverso un linguaggio mitologico-religioso.

Nonostante questo apparato repressivo, negli anni ’70 il paese ha attraversato l’emergenza e l’innovazione delle proteste sociali. Il terzo colpo di Stato militare del 1980 ha usato una violenza estrema contro ogni tipo di contestazione, in particolare contro le mobilitazioni curde, e la resistenza del movimento curdo ha provocato un movimento popolare transnazionale e una guerra che continua ancora oggi. Inoltre, in questo ambiente controllato, nonostante la guerra lo spazio delle lotte sociali è passato dalle tradizionali logiche di contestazione a nuove forme, caratterizzate dalla molteplicità, dalla creatività e da un pacifismo resistente. Il movimento femminista ha svolto un ruolo chiave in questa trasformazione, fondando un nuovo ciclo di contestazioni: ha fatto da incubatrice, a partire dagli anni Novanta, di vari movimenti ambientalisti, libertari, antimilitaristi e LGBT che adottano le sue modalità di organizzazione e azione. Le innovazioni organizzative, ideologiche e di modalità d’azione avviate dal movimento femminista sono state riprese e mobilitate da altri attori della protesta sociale. In questo nuovo spazio di dibattito, l’evidenza di una molteplicità di cause permette la decontrazione del monopolio ideologico, organizzativo e politico della sinistra tradizionale nello spazio della protesta militante, favorisce l’emergere di un nuovo vocabolario e la liberazione delle menti. L’anti-autoritarismo è stato ed è tuttora al centro di questo ciclo di proteste sociali e, in tempo di repressione, si nutre di convergenze. Convergenze che hanno provocato trasformazioni, portando a coordinamenti temporanei che innovano le modalità di mobilitazione al di là delle organizzazioni e delle rivendicazioni iniziali. I movimenti costituiti all’inizio da organizzazioni strutturate vengono ricostruiti inglobando forme di organizzazione fluide o transitorie: le comunità e le reti militanti iniziano a costituire la dinamica principale dell’azione collettiva.

Appena uscita dal carcere, mi sono ritrovata in questa effervescenza. La mia partecipazione si è basata sull’apprendimento delle lotte collettive e sulle successive innovazioni dello spazio militante in cui viaggiavano concetti e repertori, idee ed esperienze. Sono stata testimone di una rivoluzione non strutturale e del rafforzamento della repressione contro questo movimento che stava trasformando il Paese dal basso. Questa repressione non era nuova, è sempre stata letale. Già tra il 1992 e il 1993 sono stati uccisi circa duemila intellettuali e attivisti. Fino agli anni Duemila, lo Stato profondo o lo Stato nello Stato è diventato sempre più strutturato. La guerra con i curdi ha giustificato questa ragion di Stato e le sue pratiche arbitrarie. Nel 2001 e nel 2002, il Consiglio di sicurezza nazionale turco (MGK), formato da militari, ha imposto ogni mese il proprio ordine del giorno al governo. Eppure la rivoluzione dal basso è continuata senza sosta, nonostante la repressione.

 

Speranza neoconservatrice-neoliberale?

Di fronte alla perseveranza della resistenza, il potere politico si è indebolito e nel 2002 è entrato in scena il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), neoconservatore-neoliberale in veste islamica, con il sostegno del capitalismo occidentale. La sua promessa era di risolvere i conflitti, di attuare un liberalismo economico e politico basato su un conservatorismo di stampo musulmano. Quando è salito al potere, ha attaccato innanzitutto i diritti sociali, gli spazi naturali e storici, ma anche lo Stato profondo che ho appena descritto, ad esempio limitando i poteri del Consiglio di sicurezza nazionale turco o giudicando un centinaio di alti ufficiali e generali. Si è avvicinato all’UE, mostrandosi pronto al dialogo sulle questioni armene e curde.

Questi cambiamenti di facciata, avvenuti nei primi anni del mandato quinquennale, diedero speranza a molti intellettuali turchi, ma ben presto furono messi in atto nuovi metodi di repressione, improntati a fantasie neo-ottomane. Tuttavia, il fallimento di queste politiche neo-ottomane in Medio Oriente ha portato all’indebolimento del governo turco. Gli scontri nella regione sono interconnessi con i conflitti interni della Turchia e si stanno intensificando. L’AKP è stato indebolito da una combinazione di alleanze economico-politiche transnazionali e resistenza, ed è diventato parte della struttura statale.

 

Fine della speranza

Le piccole aperture si sono chiuse rapidamente, colpa della paralisi seminata dalla speranza. Posso citare solo alcuni punti di svolta: innanzitutto, nel 2007, l’assassinio di Hrant Dink, giornalista armeno e pacifista che, approfittando dell’apertura politica dovuta all’avvicinamento all’UE, ha chiesto il riconoscimento del genocidio armeno. Il 9 gennaio 2007, Hrant è stato colpito alla testa da un proiettile ai piedi del suo ufficio. Al suo funerale, più di un milione di uomini e donne hanno marciato dietro la sua bara, in un silenzio carico di minacce. Ho lasciato la Turchia, dopo la sentenza della Corte di Cassazione, nel 2009, due anni dopo l’assassinio del mio amico. Se non avessi rischiato l’ergastolo, non me ne sarei andata. Erano segni della fine della speranza. Anche per i più ottimisti.

Uno dei punti di svolta più evidenti è stato segnato dalle proteste di Gezi nel 2013. I media internazionali hanno annunciato l’avvento della “primavera turca”. Se da un lato hanno rivelato il volto autoritario dell’attuale governo, dall’altro le manifestazioni hanno portato alla ribalta la rivoluzione dal basso in atto da decenni: questa azione è stata il risultato di profonde trasformazioni nelle logiche tradizionali delle lotte sociali e della nascita delle contestazioni che ho spiegato sopra.  Ma fino ad allora lo Stato non aveva percepito questa dinamica. La paura che quest’ultima ha suscitato nel governo ha portato a una crescente repressione dei movimenti sociali.  Lo Stato aveva eliminato i vecchi quadri, ma non i loro modi arbitrari. Lo Stato profondo è tornato in gioco e l’AKP è sceso a patti con esso, per consolidare il suo potere assoluto. La Turchia è quindi entrata in un periodo molto particolare della sua storia: deregolamentazione economica, giuridica e sociale.

 

Nuovo ordine militarista e sessista

 Sarebbe difficile comprendere tutta questa violenza senza tenere conto della guerra transnazionale con i curdi che è tornata crudelmente nel Paese. È presente ovunque, ma imperversa nelle regioni curde, in modo brutale. Le città che avevano avuto piccole esperienze democratiche si stanno oscurando dopo la confisca dei municipi da parte dello Stato, gli arresti di massa e le uccisioni. Ora dopo ora una nuova notizia: imprigionamenti, torture, massacri, divieti…

Processi interminabili, incarcerazioni senza accuse, condanne basate su testimoni segreti. Nel gennaio 2020, la Turchia contava circa 294.000 detenuti, secondo il Ministero della Giustizia. Le ONG stimano in circa 80.000 il numero di prigionieri politici accusati di terrorismo. Sì, in Turchia circa 80mila attivisti, giornalisti, artisti, musicisti, avvocati, scrittori, accademici, parlamentari e sindaci sono dietro le sbarre di un carcere… Immaginate un Paese che imprigiona tutte queste persone, il maggior numero  possibile… E il 25 aprile la “giustizia” turca è stata protagonista di un nuovo scandalo: otto intellettuali, artisti, attivisti per la pace sono stati condannati a 18 anni di carcere. L’accusa è a dir poco assurda: “tentativo di rovesciare il governo” da parte di chi ha organizzato le proteste di Gezi nel 2013! E quando Sebnem Korur Fincanci, presidente dell’Associazione medica nazionale, ha richiamato l’attenzione sui video delle bombe chimiche usate dallo Stato turco contro i curdi, si è ritrovata in prigione. Gli esempi sono numerosissimi.

Quanto al movimento femminista, è osservato con particolare attenzione. Soprattutto le femministe curde. Molte vengono assassinate, le loro manifestazioni vengono brutalmente represse, migliaia vengono imprigionate. È la vendetta per la loro lotta contro Daesh. È la vendetta per le proteste di Gezi. Il movimento è consapevole del suo ruolo nelle nuove proteste. Sta imponendo il suo ordine sociale più apertamente. Le femministe sono un vero ostacolo sociale al progetto di società islam-conservatrice. Nel 2016, Erdogan ha esortato le donne ad avere tre figli, mettendo indirettamente in discussione per la prima volta il diritto all’aborto in Turchia. L’anno scorso, la decisione di Ankara di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul faceva parte dello stesso progetto. Dal 2018, l’alleanza dell’AKP con l’estrema destra ha rafforzato la militarizzazione della società, con la moltiplicazione delle milizie. È in questo clima maschilista che il governo ha iniziato ad attaccare le femministe, le donne sindaco e le deputate curde. Migliaia di attiviste, decine di deputate e sindaci sono in carcere da anni, ostaggi del governo turco.

 

Anche noi siamo ostaggi

L’esempio della protesta sociale in Turchia illustra come le prospettive “occidentalocentriche”, le analisi riduttive e le teorie deterministiche non riescano a coglierne la complessità. Dimostra che in un contesto in cui l’azione collettiva è ostacolata, le mobilitazioni di protesta possono articolarsi e diffondersi sia geograficamente che socialmente. La “primavera”, che non era caduta dall’alto, non sarebbe evaporata, nonostante la repressione in cui il Paese sta sprofondando. La rivoluzione dal basso era iniziata sotto il regime militare del 1980. I movimenti sociali in questo Paese sono come piante che crescono nel cemento. Certamente, continuano a crescere perché la convergenza dei movimenti di protesta negli ultimi trenta anni ha un’influenza sociale che ha delle conseguenze. Come disse Angela Davis, “i muri abbattuti diventano ponti”. In Turchia, grazie a questi ponti, la protesta continua ad abbattere altri muri. Appaiono le crepe. Sotto la violenza estrema che distrugge la possibilità stessa di azione collettiva, le “formiche acrobate” riescono a creare rivolte sorprendenti.

Eppure non è facile. Nonostante le falle, il divario tra le risorse del governo e quelle dei movimenti sociali è enorme. Senza la solidarietà internazionale, il Paese non potrà uscire dal tunnel dell’orrore in cui si trova.  Per questo Erdogan è intenzionato a nascondere l’impatto internazionale di queste lotte, accusando ad esempio i movimenti sociali di essere “spie dell’Europa”.  Perché allora queste istituzioni rimangono passive? A causa dell’attuale posta in gioco geopolitica? Come spiegare altrimenti il silenzio delle grandi potenze occidentali di fronte al massacro in corso da parte dell’esercito turco contro i curdi siriani che combattono contro Daesh in nome della civiltà nel suo complesso? La civiltà non è più in pericolo? Quelli che vivono in Europa, in America, in Africa? Dal 2009 sono in esilio in terre europee, lontana dalla Turchia. Quindi non sono in pericolo? Non siamo in pericolo?

La storia ci ha dimostrato più volte che quando il fascismo prende piede in un Paese, l’intero pianeta è in pericolo. E oggi le complicità internazionali possono contribuire a uccidere la civiltà.

Non permettiamolo! Altrimenti annegheremo nella stessa catastrofe.